SCALE A SENSO UNICO

SCALE A SENSO UNICO

SINOSSI:
"Scala a senso unico" è un racconto che cattura, con profonda tenerezza e malinconia, il peso del passare del tempo nella vita di una donna anziana. L’autrice crea un’atmosfera intima attraverso i ricordi della zia Pina, intrecciando la sua storia personale di sacrificio, perdite e resilienza. La narratrice, condividendo un momento quotidiano e carico di emozioni con l’anziana, si confronta con la fugacità della vita e l’inevitabilità della morte, mentre riflette sulla solitudine e sui legami familiari. L’uso della lingua e dei ricordi intrecciati dà vita a una voce unica, a una storia che, più che triste, è una profonda riflessione su cosa significhi vivere, ricordare e, infine, accettare il trascorrere del tempo.

SCALE A SENSO UNICO

Non serve aspettare che tutto finisca per fare un resoconto, a volte basta un solo pomeriggio accanto a una persona di 90 anni per capire come inesorabile scorre il tempo di un’intera vita.

Mi accoglie sul pianerottolo della sua casa al terzo piano senza ascensore. Arrivo un poco affannata, ma basta un abbraccio per farmi dimenticare le sei rampe di scale a piedi, che mi sembrano sempre più lunghe ogni volta che vado a casa sua. Mi lascia entrare e mi chiede se voglio qualcosa da bere.

−No, grazie, zia. Sto bene.

Non vado spesso a trovarla. Trascorrere del tempo con lei significa vivere il passato in un presente che non le appartiene più. Sta sola in una casa in centro e la si vede spesso affacciata al balcone, unica vetrina sulla strada. Tutte le mattine il suo panaro[1] si riempie col pane, la frutta e le verdure che le lascia il garzone che lavora nel supermercato vicino. Basta solo una telefonata e la spesa arriva dopo qualche ora. È contenta di vedermi. Finalmente potrà sapere, potrà chiedere cosa sta accadendo fuori.

−Com’è to’ patri? Finisti ’a scola? ’I to’ figghi su’ ancora fora? hanu esami?[2]

−Piano…, piano zia. Dammi tregua.

È impaziente. Vuole caricarsi di informazioni, come un vagone merci in cui resta lo spazio per l’ultima scatola. Le rispondo con molta calma per rallentare un poco la sua fretta.

−Sì, abbiamo finito anche quest’anno con gli esami e le ragazze sono ancora fuori a studiare. Papà è sempre più stanco e inizia a non sentirci più. Gli devo ripetere le cose tre volte prima che mi capisca e ho l’impressione che si trascuri dopo la morte di mamma. Non è abituato a cucinare e a parte la pasta con la salsa e una fettina di carne in padella non mangia altro. Quando viene a stare un paio di giorni da noi gli preparo qualcosa di buono da portare con sé per condire la pasta.

−Mischinu, ’A morti di to’ matri ’u abbattìu assai.[3]

−Proprio così. Appena poche settimane fa aveva ancora uno scopo: comprare le medicine, lavare la mamma e fare la spesa. Adesso le giornate gli sembrano interminabili.

’U capisciu bonu a to’ patri. Iu oramai sugnu sempri avviluta e mi piaci quannu pozzu parrari ccu quarchidunu. Sugnu cuntenti ca vinisti.[4]

Pina ha deciso di raccontarmi la sua esistenza. Mi siedo sul divano e iniziamo il viaggio indietro nel tempo. Ha dodici anni quando perde mamma Rosalia per un cancro allo stomaco. Sembra sentirle parlare:

−Pina, Pina, unni si? Veni ccà, nun m’ha’ lassari mancu ’n minutu.[5]

−Ccà, mamà, sugnu ccà. Cchi pozzu jìri a fari ’a pipì?[6]

E cchi hai ’i rini lenti com’a to’ nanna? Ccà ha’ stari fin’a quannu moru.[7]

Non può stendersi neanche un attimo sul divano del salotto, né avere un poco di libertà in casa. Deve starle incollata incurante di essere già promessa a un uomo del vicinato. Uno sconosciuto che si occuperà della sua educazione: matrimonio−figli−sacrifici−obbedienza.

−Pozzu nesciri quantu ’o pigghiu ’u filu ppi raccamari dumani ccu Rosa?[8]

No, ti dissi ca nun t’ha’ moviri.[9]

È così fa, fino a quando la mano ossuta della mamma lascia la sua per sempre, sussurrando il suo nome. Ultima di nove figli venuti al mondo dai due diversi matrimoni, si chiede perché a lei è stata concessa una vita così lunga se ormai tutti i suoi fratelli sono morti. Suo padre, don Serafino, si risposò con Rosalia, la figlia più bassa e magra delle tre figlie di don Bastiano, solo sei mesi dopo la perdita della moglie. Dicevano in paese che quella ragazza, dai fianchi stretti e dai seni piccoli non sarebbe riuscita a partorire neanche uno scarafaggio, ma si sbagliavano quelle malelingue, increduli della forza di mamma sua che, tra un ricamo e un altro, riuscì a generare ben tre femmine e quattro maschi, prima che la malattia la divorasse. Pina imparò a cucire, a cucinare e a imbastire abiti per i fratelli molto in fretta. Adesso non riesce più a tenere neanche un uncinetto in mano e le giornate ad impastare pane sono lontane. Il suo desiderio sarebbe tenere tutta la famiglia riunita, ma ogni giorno i figli hanno sempre tanto da fare e lei, che non ha conosciuto convivenze, ma solo un’unione indissolubile in una società senza parità, non si ribella. Mi racconta di storie lontane, prive di allegrie, nutrite di pane raffermo con latte in scodella ad accudire figli e nipoti, come Lina, la figlia che non ha mai avuto, ma che insieme alla sorella Rosa, vedova di guerra, hanno cresciuto tra i suoi quattro figli maschi.

L’arrivo di quella femmina fu visto come una grazia in quella famiglia. Apparvero colori come il rosa dei vestitini, scarpette verdi e tanti fiocchi colorati per addolcire una chioma ribelle, nera come la pece. Il volto tondeggiante e solare di Lina accoglieva due occhi grandi e profondi come il mare quando è in tempesta. Fu l’unica a convincere la nonna paterna ad accettarla, dopo il suo secco rifiuto a vederla per non avere il suo nome: Angela. Quando non bastano le parole per risolvere le discordie, il tempo spesso trova la soluzione. E così, dopo due anni di mutismo, durante una mattina trascorsa in campagna a raccogliere olive, quella bisbetica donna sentì insistentemente: nonnuzza[10]aiutimi. La piccola Lina era scivolata in un secchio e non riusciva ad uscire. La sua reazione fu immediata. Si alzò e corse a salvare il suo angiluzzu.[11] La aiutò ad uscire e non la lasciò più sola. Le insegnò a camminare e la portò con lei in cucina dove imparò col tempo a preparare specialità come la pasta con i broccoli arriminati [12] e gli spaghetti con i finocchietti selvatici e pangrattato tostato.

Se le settimane erano lunghe e faticose per tutti, il pranzo della domenica era un momento unico: cugini, zii e fratelli si riunivano per mangiare insieme. Mentre i piccoli giocavano con noci e fave secche i grandi discutevano sotto il lume ad olio della nuova semina, della preparazione della terra e della copertura delle serre. Se poi nonna Angela riusciva a vendere le poche zucche verdi del giardino si compravano anche i gelati per Titta, Giuseppe, Angelo e Max, i figli della zia Pina, e Lina. Era subito festa.

Sulu ‘i ricordi m’arrestunu. A cch’hanu sirvutu tutti ‘sti sacrifici, si’ ora nun haju cchiù nuḍḍu. Poviru figghiu miu, quantu travagghiau.[13]

La zia ha ragione a lamentarsi perché non c’è una spiegazione plausibile alla perdita di un figlio. Titta, il maggiore, fu stroncato all’età di 32 anni da una leucemia fulminante e con la sua morte tutto cambiò. Giuseppe, il secondogenito, partì per lavoro fuori Italia, Angelo, il terzo, si trasferì al Nord e Max, l’ultimo, rimase il babbunazzu[14] della famiglia. Per anni fu conteso dall’altra sorella, Gina, sterile e senza eredi che avrebbe voluto adottarlo, ma il marito, di origini nobili, non permise che quel ragazzone timido e senza ambizioni lo rappresentasse.

−Talìa quanti fotografii su’ appinnut’ô muru, c’è macari chiḍḍa di to’ matri Lina.[15]

Mi alzo per guardarle da vicino e scorgo tra tanti bambini, ragazzi e persone adulte alcuni volti già visti, altri che magari non sapranno mai di me, ma che lei ci tiene a farmi conoscere.

−Tutt’i cosi si scòrdunu siḍḍu ’n c’è mancu ’na fotografia. Macari ’n buttuni abbasta, [16]−aggiunge compiaciuta della sua collezione.

− Conservi ancora la foto dei tuoi genitori? −chiedo con curiosità. La vedo alzarsi con fatica e camminare un poco obliqua.

−Maliditta ’a vicchiània, mancu ’a notti mi lassa dormiri. Ci vulia macari ’stu duluri ê jammi ca nun mi fa nesciri mancu davanti â porta.[17]

Apre l’anta del mobile con specchi grandi e, tra tazzine con disegni cinesi, tira fuori una foto in bianco e nero.

−Chista è me’ matri e chistu me’ patri. Armenu iḍḍi appìru ’na vita longa, no com’â chiḍḍa di me’ maritu e di me’ figghiu. Arristai sula.[18]

Il marito l’ha perso a trentotto anni e non c’è giorno che non parli del suo grande amore sepolto insieme al figlio.

−Mi chiamava “pupiḍḍa”[19] −dice, e non mi stupisco. Basta guardare il suo sorriso ampio per scordarsi delle brutture del mondo e immaginare che quei fianchi larghi avranno ammaliato l’istinto indocile del marito sotto le lenzuola.

Siu sulu aviss’avutu a iḍḍu, armenu nun passava tutti ’sti disgrazzi.Amara a cu’ nun havi a nuḍḍu.[20]

Piange.

Ascolto la storia del raccolto perso per la grandine dopo un anno di fatica, la malattia del primogenito che la costrinse a lavare le scale di tutti i vicini per pagare le medicine. Mi strazia il dolore per il figlio delirante in preda a febbre alta e allucinazioni, accompagnato dalle urla di una suocera dispotica, lasciata in eredità dal marito.

−’Nn’haju vistu cosi tristi nnâ me’ vita.[21]

Si asciuga le lacrime. Poi aggiunge per consolarsi:

−Ma vo’ diri ca ’u Signuri vosi chistu ppi mia.[22]

Sono come in una bolla del tempo che fa fatica a rompersi. Come si può rimanere insensibili di fronte a tanto dolore? I miei occhi arrossiscono. Lei mi guarda e capisce.

Nun vogghiu ca l’autri chianciunu ppi mia. Già abbastunu ’i larmi ca haju jittatu iu. Vujautri hat’a siri filici. Siḍḍu hat’a chianciri, ’u giustu e nenti cchiù.[23]

Il racconto si interrompe e il mio volto si rasserena. Siamo tornate al presente.

−Va bene, zia. Lasciamo perdere questi dolorosi ricordi, parliamo di altro più felice.

Poche cose felici c’haju, ormai. Una è me’ niputi Sara ca studia a Modena e tutti ’i siri mi chiama. Menu mali ca ci su’ ’sti telefuni, sinnò fussi persa. Ma ’u vidi chi ura è? Ti ’nn’ha’ turnari â casa.[24]

Avverto che si è stancata di raccontare e che vuole rimandare a un altro giorno la nostra chiacchierata. Mi alzo dal divano e le chiedo un bicchiere d’acqua. È già buio fuori e devo proprio rientrare. Mi aspettano per la cena, ma le prometto che tornerò presto a trovarla.

−Mi accompagni alla porta?

Certu. Però nun ti siḍḍiari, si nun scinnu ’i scali. Ti talìu di ccà. Ca ccà l’aria è chiù frisca e c’è chiù lustru.[25]

−Ma dovrò fare tutte queste scale per vederti la prossima volta, zia Pina?

Mi dispiaci, ma siḍḍu mi vo’ vèniri a truvari, ha’ ‘cchianari ’nzin’a ccà. Chista è na scala a senso unico e nun mi fa turnari ’nnarreri. M’ammancunu sulu ’n pocu di scaluni e appoi arrivu, ma nun sacciu però chiḍḍu ca m’aspetta, spiramu sulu ca ḍḍa si sta megghiu.[26]

Non capisco cosa vuole dirmi esattamente, ma le regalo un bel bacio in entrambe le guance e vado via, certa, spero, di trovarla sullo stesso pianerottolo la prossima volta.


[1] Cesto di vimini

[2] Come sta tuo padre? Hai finito con la scuola? Le tue figlie sono ancora fuori? hanno esami?

[3] Poverino, la morte di tua madre lo ha abbattuto molto.

[4] Lo capisco bene tuo padre. Io ormai mi sento sempre avvilita e mi piace quando posso parlare con qualcuno. Sono contenta che sia venuta.

[5] Pina, Pina, dove sei? Vieni qua, non devi lasciarmi sola neanche un minuto.

[6] Qua mamma, sono qua. Posso andare a fare pipì?

[7] E che hai i reni che non funzionano come tua nonna? Devi stare qui, fin quando muoio.

[8]Posso uscire a prendere il filo per ricamare con Rosa, domani?

[9] No, ti ho detto che non ti devi muovere.

[10] Nonnetta aiutami

[11] angioletto

[12] mescolati

[13] Solo i ricordi mi restano. A cosa sono serviti tutti quei sacrifici se adesso non ho nessuno. Povero figlio mio, quanto ha lavorato!

[14] scemotto

[15]Guarda quante foto sono appese a quel muro, c’è pure la foto di tua madre.

[16] Tutto si dimentica se non c’è una foto a ricordarcelo. Anche un bottone basta a volte.

[17]Maledetta vecchiaia, non mi lascia dormire neanche la notte. Ci voleva pure questo dolore alle gambe a non permettermi di uscire neanche davanti alla porta.

[18] Questa è mia madre e questo è mio padre. Almeno loro hanno goduto di una lunga vita, non come mio marito e mio figlio. Sono rimasta sola.

[19] bambolina

[20] Se avessi avuto lui, non mi sarebbero successe tutte queste disgrazie. È molto triste non avere qualcuno accanto.

[21] Quante cose tristi ho visto in vita mia

[22] Vuol dire che Gesù voleva questo per me

[23] Non voglio che piangiate per me. Sono state sufficienti le lacrime che ho versato io. Voi dovete essere felici. Se proprio dovete piangere, il minimo.

[24] Poche cose ormai mi rendono felice. Una è mia nipote Sara che studia a Modena e tutte le sere mi chiama. Meno male che esistono i telefoni, altrimenti mi sentirei persa. Ma hai visto che ore sono? Devi tornare a casa.

[25] Certamente, ma non ti arrabbiare se non scendo le scale con te. Ti guardo da qua. C’è più aria fresca e più luce.

[26] Mi dispiace, ma se vuoi venire a trovarmi devi salire fino a qua sopra. Questa è una scala a senso unico e non fa tornare indietro. Ormai mi restano solo pochi scalini e poi arrivo. Spero, solo che lì si stia meglio.


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